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Occupazione e carriera negate alle donne Stampa E-mail
Le discriminazioni sessuali sul lavoro si accentuano, in Sicilia come nel ricco Nord Est

Negli Stati Uniti le lavoratrici della Wal-Mart hanno intentato una causa di classe: ricevono un salario più basso dei colleghi maschi, fanno turni di lavoro più pesanti, con più difficoltà accedono a incarichi professionali di vertice.
In Sicilia, nel 2003, dopo cinque anni di crescita, l’occupazione femminile è diminuita del l’1,2%. Non solo: il salario è del 20% più basso rispetto a quello dei colleghi uomini; la probabilità statistica di accedere a un livello professionale più elevato è di sette volte inferiore a quello degli uomini; inoltre il 55% di coloro che subiscono azioni di mobbing sono donne. Eppure, gli studi statistici rassicurano sul livello di scolarizzazione (alto) e di formazione professionale di tutte le donne. Bisogna aggiungere inoltre che la discriminazioni femminile sul lavoro investe trasversalmente la stessa classe delle lavoratrici: una donna del sud è più discriminata.
Un’indagine Istat sulle forze di lavoro nel 2003 “ha contabilizzato in Sicilia 993 mila occupati di sesso maschile e 414 mila occupati di sesso femminile, equivalenti a un tasso di occupazione (calcolato sulla popolazione di 15 anni e oltre) pari rispettivamente al 50% e al 19%. In Sicilia le donne hanno dichiarato di lavorare prevalentemente nelle attività che producono servizi (89%) e per il resto in agricoltura (4%) e nell’industria il (7%); l’incidenza degli occupati dipendenti sul totale raggiunge l’80% per le donne superando di 7 punti quella degli uomini”. L’indagine Istat ha rilevato che “in Sicilia le differenze tra uomini e donne sono risultate rilevanti sia sotto il profilo dell’occupazione sia sotto il profilo della disoccupazione e penalizzano le donne”: non si profila tuttavia nessuna causa di classe delle donne siciliane.

Ancora, consultando i dati della Fondazione Nord Est, si rimane colpiti da una tipologia di discriminazione femminile molto particolare: gli imprenditori del nord lasciano le redini dell’azienda ai figli maschi (con basso livello d’istruzione) e destinano le figlie ad acquisire livelli di istruzione più elevata (come la laurea) che tuttavia non possono spendere in azienda perché prevalentemente di indirizzo umanistico. Così “nelle terre dove ci sono più aziende che campanili la percentuale di donne titolari di impresa è più bassa che nel resto d’Italia”. Questo conferma quanto sostiene la sociologa e parlamentare della Margherita Franca Bimbi: “la responsabilità della scelta umanistica è quasi sempre delle famiglie”.

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27 luglio 2004

 

 
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