Sabato 10 marzo a Roma una grande manifestazione per l'approvazione della legge sulle unioni civili. Arcidonna sarà presente per ribadire il suo sì ai diritti e alle libertà di donne e uomini.
APPELLO AD ADERIRE ALLA MANIFESTAZIONE NAZIONALE
DIRITTI ORA! ROMA 10 MARZO, PIAZZA FARNESE ORE 15.00.
Alle DONNE e agli UOMINI di questo paese così bello e così poco libero. A chi crede che tutti gli esseri umani nascono uguali in DIGNITÀ.
A chi ha a cuore la COSTITUZIONE italiana che riconosce DIRITTI e non li vieta a nessuno.
A tutte e tutti diamo appuntamento per una grande e festosa manifestazione per la LAICITA’ e le LIBERTÀ.
Per una legge sulle UNIONI CIVILI che riconosca il valore sociale dell'AMORE, eterosessuale ed omosessuale. Per una stagione di riforme fondate sulla libertà e la RESPONSABILITÀ
di donne e uomini.Un futuro di PACE passa per la
valorizzazione dei diritti delle persone e il riconoscimento che la PLURALITÀ
è una formidabile ricchezza.
Diamo la SVEGLIA alla classe politica. Il tempo dei diritti è ORA.
Per le adesioni ed informazioni inviare una email a
Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Un invito alla riflessione da Stefano Ceccanti, Capo dell'Ufficio Legislativo del Ministero delle PO.
I Dico non mettono a repentaglio né la Costituzione né principi non negoziabili.
Almeno tre sono le obiezioni fondamentali contro i Dico. La prima è
la resa a dinamiche individualistiche. Il modo con cui è congegnato il
disegno di legge, a partire dalla normativa anagrafica vigente, non segna affatto
una volontà di trasformazione dei desideri in diritti secondo un approccio
libertario. E’ vero il contrario: si tratta dell’espansione
dei principi solidaristici della Costituzione in quella che sinora era stata
una zona grigia, tutelata solo da qualche sentenza, da qualche norma di provenienza
europea o regionale.
Non a caso il primo sostenitore della tutela delle coppie di fatto per questa
via era stato Ermanno Gorrieri, il padre delle moderne politiche familiari,
recentemente scomparso, che ci invitava a valorizzare la nozione di “famiglia
anagrafica” con poche sovrastrutture formali e varie tutele efficaci,
di cui si intendeva certo molto più di Cesare Salvi. Del resto, a riprova,
il disegno di legge è stato criticato da chi, come Piero Ostellino, conduce
da anni una campagna sul carattere obsoleto della Prima Parte della Costituzione.
Per di più il documento di alcuni giuristi teso a ribadire il giusto
primato della famiglia fondata sul matrimonio, presentato dai media e da alcuni
degli stessi firmatari come una critica ai Dico, paradossalmente non arriva
a esplicitare nel testo tale critica rispetto a nessun articolo del disegno.
I riferimenti alla giurisprudenza costituzionale, che non ha mai interpretato
il primato dato alla famiglia sulla base dell’articolo 29 come preclusivo
di diritti e doveri garantiti dall’articolo 2 ad altre formazioni sociali,
sono stati ben presenti al Governo. Per queste ragioni ritengo sbagliato sostenere
che si tratti di un “male minore” che si tratterebbe al più
di tollerare, sulla base di un secondo tipo di critica, meno radicale del precedente.
Questa categoria si può certo usare rispetto a possibili altri modelli
simil-matrimoniali che potrebbero avanzare in futuro, ma qui, rispetto allo
status quo, si è introdotto un bene, giacché una nuova tutela
di situazioni affettive e solidali, prima episodica o assente, non può
certo essere vista come un male, maggiore o minore che sia. Una terza critica,
la più radicale, chiama in campo la possibile lesione di principi non
negoziabili. Essa merita una risposta in tre passaggi. Il primo è un
doveroso invito alla prudenza sulla concreta identificazione dei principi, non
accessibili in modo astorico e immediato. Le vicende di analoghi dibattiti nel
periodo costituente sono emblematiche.
Nella Settimana Sociale del 1945 non un imam dell’Arabia Saudita, ma l’arcivescovo
di Reggio Calabria in una delle relazioni-base, dichiarava che il carattere
“gerarchico” del rapporto uomo-donna nel matrimonio era un dato
di diritto naturale indisponibile per il legislatore e la posizione ufficiale
comunicata dall’Azione Cattolica il 16 ottobre 1946 al Presidente del
Consiglio chiedeva quindi la riaffermazione del principio della “gerarchia
familiare per cui il marito è capo della famiglia”. In secondo
luogo, eliminati questi riferimenti dal quadro dei principi e ricompresi invece
come disvalori discriminatori, il cuore del principio era e resta l’indissolubilità
del matrimonio. Tuttavia esso non appartiene più al nostro ordinamento
né ad alcuno degli ordinamenti europei. Il matrimonio civile ne è
infatti privo e pertanto, anche quando viene difeso per il suo significato odierno,
non rappresenta una variante del matrimonio religioso per il fatto che ha lo
stesso nome: c’è una differenza di essenza, non di grado. All’epoca
della Costituente ciò veniva sottolineato con accenti che ovviamente
nessuno di noi sente più suoi, mentre sentiamo nostri quelli del Compendio
della dottrina Sociale, paragrafi 225 e seguenti. Infatti nei progetti di Costituzione
redatti dai padri della Civiltà Cattolica per incarico di papa Pio XII,
che conosciamo ad opera di Giovanni Sale, si argomentava con nettezza che le
“formalità civili – chiamate comunemente e impropriamente
matrimonio civile – non potranno mai essere ritenute in nessun caso vero
contratto nuziale. Il matrimonio civile, per un cattolico, non potrà
mai essere altro che un concubinato legalizzato”. Matrimonio per cui allora
si richiedeva comunque che si potesse sciogliere “solo con la morte di
uno dei coniugi” anche nel terzo progetto più morbido redatto dai
Padri, quindi non quello massimale “desiderabile” e neanche quello
medio “accettabile”, ma quello definito “non accettabile dalla
Santa Sede- Minimo assoluto cui cattolici potrebbero collaborare salvo diverse
istruzioni dell’Autorità Ecclesiastica.”
In altri termini il matrimonio civile che si difende oggi contro i Dico con
l’argomento per cui essi, costituendo un’alternativa più
facile per gli eterosessuali, rischiano di svuotarlo, non è un principio:
è una mediazione più bassa perché dissolubile di quello
che allora, nella versione indissolubile, era comunque ritenuto un “concubinato
legalizzato”. Una volta passata la soglia della celebrazione religiosa
e dell’indissolubilità, il matrimonio civile, con la sua promessa
di stabilità, è certo preferibile a una convivenza, ma non è
un principio e soprattutto non comporta che il privilegio che va dato a una
stabilità promessa precluda del tutto diritti a una stabilità
che si dimostri vissuta. Si può essere radicali su un principio, non
su una mediazione. C’è però un terzo passaggio che non si
può eludere: si può ritenere che sia in gioco il principio non
per il rapporto tra matrimonio civile e Dico per gli eterosessuali, ma per le
convivenze omosessuali? Niente si trova al tempo della Costituente; per fortuna,
viste le citazioni precedenti. Il paragrafo 228 del citato Compendio è
dominato dalla preoccupazione che tali unioni sfocino direttamente o gradualmente
in una confusione col matrimonio. In ogni caso, a differenza di molte critiche
ai Dico che sono scivolate in forme di omofobia, il dissenso è comunque
distinto dal dovere di rispettare “pienamente” la “dignità”
della “persona omosessuale”. In questo caso, però, il dubbio
è infondato: nessuno nega che i Dico nascano anche per risolvere i problemi
delle persone dello stesso sesso che vivono insieme, molte delle quali omosessuali.
Tuttavia la forma è sostanza: i Dico si rivolgono
a una platea di coppie che non sono identificate né sulla base del sesso
né della tendenza sessuale. Il disegno non discrimina le coppie
omosessuali, ma non si vede perché ciò avrebbe potuto e dovuto
essere fatto. Perché l’espansione dei principi
solidaristici dovrebbe essere realizzata fermandosi alle porte delle loro case?
Fermandosi non si tutelerebbe nessun principio, né cristiano né
costituzionale. Anzi, almeno per la Costituzione, alcuni di quei principi
sarebbero stati negati. Ho il ragionevole dubbio che saremmo anche incorsi,
dal punto di vista cristiano, in un caso di peccato di omissione.
di Stefano Ceccanti, Capo dell'ufficio legislativo del ministero delle Pari Opportunità
9 marzo 2007
|