Una ricerca del World Economic Forum rivela che nei paesi in cui il differenziale di genere è ridotto, ne guadagnano il pil e il reddito pro-capite. Come dire che per crescere è necessario utilizzare la forza lavoro femminile.
Promuovere la presenza delle donne nell'economia
e nella politica non è solo una questione di equità e pari diritti.
È anche un buon investimento.
Secondo una recente indagine del World Economic Forum,
i Paesi in cui il differenziale di genere è inferiore hanno migliori
performance economiche, misurate in termini di Prodotto interno lordo pro-capite
e di competitività del sistema. Il differenziale di genere misura le
disparità tra uomini e donne secondo quattro dimensioni: la partecipazione
e le opportunità nel mercato del lavoro, i risultati nel campo dell'istruzione,
l'accesso alle cariche politiche e le condizioni di salute. Come
richiamato dalla stampa negli ultimi mesi, l'Italia, in Europa, è tra
i Paesi con i risultati peggiori in termini di differenziali di genere, in particolare
con riferimento a lavoro e politica. Questo evidenzia, specialmente per
l'Italia, un potenziale di crescita che un maggiore e migliore impiego delle
capacità femminili consentirebbe di mettere a frutto. O, visto da un'altra
angolazione, un costo che sarebbe bene ridurre.
Gli studi economici concordano sui principali fattori che determinano il livello
del Pil e la sua crescita. Il numero di ore lavorate e la loro produttività
sono cruciali. L'Italia, tra i Paesi Ocse, soffre di
un mancato utilizzo della sua forza lavoro potenziale, perdendo così
almeno il 10% del Pil (calcolato rispetto a quello statunitense). Gran parte
della forza lavoro inutilizzata è donna: il tasso di occupazione femminile
tra i 15 e i 64 anni è stato pari, nel 2006, al 46% contro il 70,7% per
gli uomini (e contro un obiettivo fissato per il 2010 dal Consiglio Europeo
di Lisbona del 60%).
Nelle coorti più giovani, il tasso di occupazione femminile è
più elevato ed è pari al 58,8% (per il gruppo 25-34 anni), suggerendo
una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia
il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di
età è superiore all' 80%, resta significativo.
Dato il limitato utilizzo della forza lavoro femminile,
un suo maggiore coinvolgimento è, per l'Italia, la soluzione più
naturale a cui pensare se l'obiettivo è la crescita.
Non è nostra intenzione in questa sede elaborare una misura rigorosa
del costo associato alle mancate pari opportunità. Vogliamo però
proporre, in modo suggestivo, un esempio che illustri il costo della (parziale)
assenza delle donne valutando l'incremento di Pil che il loro ingresso sul mercato
del lavoro genererebbe.
Consideriamo il valore aggiunto per unità standard di lavoro nei quattro
settori: agricoltura, industria in senso stretto, costruzioni e servizi. Guardiamo
inoltre alla distribuzione della forza lavoro femminile in ciascun settore:
nel 2005, più del 78% delle donne è occupato nel settore dei servizi,
circa l'1% nelle costruzioni, il 16,5% nell'industria in senso stretto e il
rimanente nell'agricoltura. Immaginiamo l'ingresso di 100mila donne sul mercato
del lavoro - un incremento di poco più dell'1% nel tasso di occupazione
femminile - che si ripartiscono tra i vari settori secondo la distribuzione
attuale e calcoliamo il valore aggiunto prodotto, nell'ipotesi che ognuna contribuisca
in misura pari ad una unità standard di lavoro nel proprio settore di
attività. Questa ipotesi implica che, non solo le donne entrino nel mercato
del lavoro, ma, per cogliere a pieno i vantaggi del loro ingresso, siano trattate
sul piano salariale e occupazionale come un lavoratore medio, cioè senza
discriminazione. Come vedremo in un secondo articolo, questo è un auspicio,
più che un dato di fatto della realtà lavorativa italiana, fortemente
discriminatoria.
I nostri calcoli ci dicono che il maggior valore aggiunto ammonterebbe allo
0,28% del Pil corrente. Non è poco: potrebbe da solo finanziare un incremento
del 30% della spesa pubblica italiana per la famiglia e così innescare
un circolo virtuoso di maggiori opportunità e crescita. Circolo ancora
più promettente se si considera che 100mila donne sono un numero irrisorio
rispetto ai quasi tre milioni di ingressi che ci separano da Lisbona. Numero
piccolo anche solo in confronto alle quasi 900mila donne che mancano per eguagliare
il tasso di occupazione femminile e maschile nelle coorti più giovani.
Ovviamente flussi di ampie dimensioni richiederebbero necessariamente aggiustamenti
sulla struttura produttiva, salari, capitale e fattori fissi che potrebbero
attenuare l'impatto positivo sopra evidenziato. D'altra parte un ulteriore effetto
benefico sul valore aggiunto può derivare dall'aumento nella domanda
di servizi domestici e di servizi per l'infanzia, pubblici e privati, tipicamente
svolti dalle donne e non valutati nelle stime del Pil.
Se questi sono i guadagni che possono generare, perché
le donne allora hanno un ruolo così marginale nel mercato del lavoro
italiano?
Da Il Sole 24 Ore - 21/01/07, di Alessandra Casarico e Paola Profeta
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