There are no translations available. La premio Nobel racconta le sue battaglie per essere accettata negli ambienti scientifici più esclusivi e parla del ruolo della donna nella società in un brano tratto dal libro di Lilli Gruber "Streghe"
La sera in cui ricevetti il Nobel lo speaker disse distintamente «Lady
and Gentlemen» invece di «Ladies», perché ero l'unica
signora in sala in un mare di uomini. Rita Levi-Montalcini,
decana della scienza italiana ancora oggi attivamente impegnata in politica,
ha ricevuto il Premio Nobel per la Medicina nel 1986.
Uno dei pochi: dal 1901 a oggi, su 741 premi assegnati soltanto 35 sono andati
a rappresentanti del gentil sesso. Su 521 Nobel complessivi per la Chimica,
la Medicina e la Fisica, inoltre, solo 12 sono donne. I 16 componenti dei comitati
che designano i premiati per queste tre discipline sono tutti maschi.
Quando entro in casa della professoressa Montalcini
è il profumo dei fiori ad accogliermi. È
passata già una settimana dal suo compleanno, ma l'appartamento è
ancora invaso dai bouquet e dalle piante che parenti, amici, colleghi e istituzioni
da tutto il mondo hanno voluto mandarle per festeggiare i suoi novantanove anni.
Mi viene incontro sorridente lungo un corridoio pieno di libri e mi stringe
la mano. È elegantissima: indossa un abito grigio dal sapore un po' vittoriano,
che sottolinea la sua figura esile, e scarpe in tinta, con una fibbia brunita.
Sul colletto alla coreana, che le incornicia il volto e i lucenti capelli bianchi,
una delicata spilla antica. Arriviamo in salotto: ancora libri, fotografie tra
le quali spicca quella della notte del Nobel a Stoccolma. E molti quadri dell'amata
gemella Paola, scomparsa pochi anni fa, che viveva sul suo stesso pianerottolo.
La mia ospite, che ha combattuto tutta la vita per essere
accettata negli ambienti scientifici più esclusivi, sul presente delle
donne è ottimista: «L'Europa sta facendo grandi progressi in questo
senso. Perfino in Cina le cose stanno migliorando. Ma resta il fatto che le
donne, da noi, non lottano per veder riconosciuti i loro meriti. E in Africa
devono combattere anche per poter semplicemente studiare». Al
diritto all'istruzione per le africane la scienziata ha dedicato molte energie
e fondi in questi ultimi anni. Grazie alla Fondazione che porta il suo nome
è riuscita a finanziare corsi e borse di studio: «Queste ragazze
hanno più fame di conoscenza che di cibo. E sono molto più determinate
degli uomini: quando possono istruirsi i risultati sono davvero sorprendenti».
È favorevole al sistema delle quote rosa, che spesso è l'unica
possibilità per garantire pari opportunità. «In Spagna,
per esempio, Zapatero sta facendo grandi progressi. Le donne devono godere degli
stessi diritti, e potersi assumere gli stessi doveri degli uomini. E invece,
fare un figlio mette comunque a rischio il loro lavoro, almeno qui in Italia».
Per quanto la riguarda, però, la famiglia non è stata un'opzione.
Non ha mai pensato di sposarsi: «L'ho deciso quando avevo tre anni. I
miei genitori erano persone colte: sono loro ad aver trasmesso a noi figli l'amore
per lo studio. Però, anche se mio padre Adamo era un uomo istruito, nella
sua idea di famiglia la moglie stava a casa. E le femmine dovevano essere educate
per diventare a loro volta buone spose e madri» Per questo in teoria l'unico
a poter andare all'università sarebbe dovuto essere il maschio di casa,
Gino. Ma Adele, la madre di Rita e Paola, sposandosi aveva dovuto rinunciare
a una parte di sé: la passione e il talento di pittrice. Fu lei a spingere
la figlia a giurare di non commettere mai lo stesso errore.
«La donna bisogna che la piasa, che la tasa,
che la staga in casa, diceva papa Pio X», ricorda divertita la professoressa.
«Per me è stato diverso: io sono sposata con la scienza, non ho
mai sentito la mancanza di un figlio o il bisogno di legarmi a un uomo. Sono
felice così. E se in passato sono stata corteggiata da qualche collega
non me ne sono proprio accorta. L'amore su di me ha l'effetto dell'acqua sulle
piume di un'anatra: sono totalmente impermeabile». Un'immagine che è
quasi un aforisma. Lei è però anche molto affettuosa, e indagatrice.
Mentre parliamo ogni tanto mi prende la mano e mi sottopone a una specie di
contro-intervista: «Ma lei, dottoressa, è sposata?». Curiosità
scientifica, forse. Perché la famosa emotività femminile nel suo
caso non esiste. Ridotti al minimo anche gli altrettanto donneschi piaceri della
cucina: «Non ho mai bevuto alcol in vita mia, ho sempre dormito poco e
mangiato ancora meno: la sera mai più di una minestra e un frutto».
Una vita monacale. E un po' come una suora, ha saputo dedicare tutta la sua
passione e dedizione a qualcosa di astratto: la scienza. Afferma che questo
è, nientemeno, l'unico segreto del suo successo: l'ostinazione con cui
ha rincorso i suoi obiettivi. «Le dirò - mi rivela, disarmante
- non ho mai pensato di essere particolarmente intelligente: la mia è
un'intelligenza mediocre. Ma ogni volta che ho incontrato una difficoltà
mi sono sforzata di trovare una soluzione alternativa».
Esercitare il cervello è un imperativo categorico,
sia per gli uomini sia per le donne. Per quanto riguarda le infinite polemiche
sulle differenze di peso, dimensioni e funzionamento tra la materia grigia maschile
e femminile mi rassicura: non siamo sostanzialmente diversi, da un punto di
vista biologico, e possiamo competere alla pari. Al di là dei
geni, sono fondamentali i primi tre anni di vita, le esperienze e le conoscenze
che contribuiscono a definire la nostra identità. «Per questo -
aggiunge bisogna continuare a pensare». Lei lo fa soprattutto di notte,
l'unico tempo libero in giornate passate tra laboratorio, fondazione, Senato
e altri appuntamenti. «Dopo qualche ora di sonno puntualmente mi sveglio:
davanti ai miei occhi si aprono scenari sconosciuti, soluzioni nuove per problemi
scientifici ai quali sto lavorando da tempo. E siccome, a novantanove anni,
non so per quanto ancora resterò lucida, di solito alzo il telefono e
ne parlo con i miei collaboratori. Ormai sanno bene che sono io, se all'alba
il loro cellulare squilla».
Giovani probabilmente un po' assonnati ma fortunati,
quelli che hanno la possibilità di collaborare con una donna simile.
Che futuro vede per loro, soprattutto per le ragazze, la pioniera Montalcini?
«Il mio intuito è di natura scientifica, non sono una veggente»
scuote la testa sorridendo, «ma quello che consiglierei è di puntare
sull'istruzione, di studiare e andare avanti. La scienza è stata a servizio
dell'umanità, ma l'umanità non ha ancora imparato dalla scienza,
in cui l'apporto delle donne è fondamentale. Il futuro è nelle
loro mani».
Parlando di futuro, le chiedo del suo: novantanove anni e nessuna intenzione
di andare in pensione. Sta lavorando sulle patologie neurovegetative, mi risponde
col tono noncurante con cui altre anziane signore parlano del corso di valzer.
«Purtroppo i miei problemi di vista mi rendono difficile studiare come
facevo un tempo, ma riesco comunque, anche se più lentamente, grazie
a un lettore ottico. Anche l'udito non mi assiste granché, ma vado avanti».
Tratto
da: iltempo.it >> Brano estratto dal libro di Lilli Gruber Streghe (Rizzoli)
capitolo 18 pagg. 304-316
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