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Sale in quota la questione femminile Print E-mail
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Lettera di un nostro redattore (uomo) suggerita dalle parole del Presidente della Repubblica in occasione dell'8 marzo

Secondo i dati resi noti dall’Istat, il 20,6% delle madri occupate al momento della gravidanza non lavora più dopo la nascita di un figlio, le donne cominciano a lavorare più tardi degli uomini e poi devono spesso accontentarsi di un lavoro non all’altezza del loro profilo professionale. Sono inoltre economicamente sfruttate, malgrado risultino altamente produttive e quasi sempre più preparate degli uomini che svolgono le stesse mansioni.

Alla vigilia dell’8 marzo il Presidente Ciampi dichiara: “La Nazione esprime la sua riconoscenza per l’impegno delle donne nella famiglia, nelle istituzioni, nell’economia, nella cultura, nella società”.

Quanto precede non sembri un sarcastico accostamento, non si vuole mancare di rispetto alle parole del Presidente, ma esse non possono essere lette che come una stridente contraddizione dell’intera società italiana. Una contraddizione tra fatti e intenti che deve essere articolata e risolta con molteplici riflessioni critiche e, soprattutto, con provvedimenti socioeconomici e legislativi concreti.

Alla vigilia dell’otto marzo Ciampi ha voluto ricordare alla coscienza della Nazione l’umiliante condizione delle mamme lavoratrici e il dramma delle donne che vengono costrette a scegliere tra il lavoro e la prospettiva di mettere al mondo dei bambini. Ha scelto la ricorrenza della festa della donna per ricordare a tutti che uno dei maggiori problemi dell’Italia, se non il più grande, è il fatto che le “culle sono vuote”. Ci ha detto che se non si migliora la condizione delle donne non c’è futuro per le speranze della Nazione.

Il giorno dopo, il Presidente riprende il suo discorso e ne sviluppa uno degli aspetti più importanti: “Le donne ricordino che sono la maggioranza degli elettori. Quindi sta a loro eleggere altre donne”. L’incitazione di Ciampi prende spunto dalla desolante realtà della politica italiana: nessun ministro economico donna; i consigli d’amministrazione delle grandi imprese composti praticamente da soli uomini; Bankitalia governata da organismi decisionali senza donne; meno del 10% le donne presenti alle camere del Parlamento; in tutta l'Italia, un solo presidente di regione donna, quattro presidenti di provincia, otto sindaci di capoluoghi di provincia.
Le donne avranno certamente la loro parte di responsabilità se si ostinano a votare in massa uomini che hanno già ampiamente dimostrato la loro inadeguatezza, ma che spazio hanno nei partiti? che possibilità oggettive hanno di competere per accedere ai luoghi decisionali che contano?

Da ieri una norma voluta dal ministro delle pari opportunità Stefania Prestigiacomo, dopo essere stata approvata dal Consiglio dei Ministri, è all’esame della commissione affari costituzionali del Senato. La norma prevede un 30% di candidature riservare alle donne, in via sperimentale per le prossime due legislature del parlamento europeo.

Da questi dati e dalle parole del Presidente della Repubblica ritengo che la questione femminile possa essere pensata a partire dalle “quote” e dal riconoscimento della differenza di genere. Articolando la questione femminile in questi termini l’intero dibattito presto o tardi dovrà imperniarsi sul concetto di democrazia paritaria.

Le quote elettorali non devono essere intese come uno strumento pratico, sperimentale, per tutelare una minoranza discriminata, ma come una delle espressioni che riconoscono e legittimano una differenza. Prima ancora che le donne accedano ai luoghi decisionali, devono veder riconosciuto il diritto di far valere in quei luoghi le concrete specificità e le potenzialità del loro genere.
Quando si parla di rafforzare la presenza delle donne in politica, in ultima istanza, non si parla di problemi di disuguaglianza (economica e di classe), ma della questione della differenza di genere.
Chi esprime forti perplessità nel portare nel cuore delle istituzioni liberaldemocratiche la differenza di genere lo fa perché non vorrebbe che i membri di un Parlamento possano essere scelti in base al criterio di appartenenza a un gruppo. Ma siamo sicuri che l’universalismo garantito dalla neutralità di genere dello Stato in realtà non annulli, o quantomeno celi, una differenza?

Le donne hanno ottenuto il diritto al voto con la nascita della Repubblica, da allora la loro condizione è migliorata notevolmente, ma si comincia ad avere l’impressione che ciò che occorre fare sia più di quanto non sia già stato fatto. In questo momento della storia repubblicana bisogna riflettere su questa tesi: le disuguaglianze che patiscono le lavoratrici e più in generale tutte le donne sono più odiose di quelle che subiscono gli uomini perché si fondano sul mancato riconoscimento delle specificità del loro genere.

Un’ultima riflessione. Emma Bonino è contraria alle quote perché le ritiene simili a delle “riserve” (di indiani, immagino). Mi ritroverò pienamente d’accordo con lei fino a quando le quote non saranno applicate a tutti i tipi di elezioni e fino a quando non avranno raggiunto la quota del 50%. Al disotto di questa soglia sarà solo un'odiosa concessione paternalista. Al di sotto di questa quota, parlare di democrazia paritaria non ha molto senso. Parlare di democrazia paritaria vuol dire avere il coraggio di guardare al di là delle istituzioni per come le abbiamo conosciute fino ad oggi.

Note strettamente personali. Quando le donne saranno/si saranno messe in condizione di poter allevare i propri figli senza dover rinunciare alle loro legittime aspirazioni professionali, quando il tasso di natalità dell’Italia comincerà a dare segni di speranza, mi piace immaginare che il Presidente della Repubblica sarà una donna. A partire da quel giorno, si capirà qual era l’intrinseca dignità politica di quegli ingenui fricchettoni che chiedevano un mondo a misura di donne e bambini.

Donne, fatevi valere.

Vittorio Greco
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