Nell'inchiesta sui gravi danni ambientali provocati dall'Enichem, anche le vittime remano contro la verità. Un appello affinché le abitanti della zona collaborino con la magistratura.
Negli anni sessanta la Sicilia puntò sul petrolchimico per vincere la
scommessa dello sviluppo economico. Ad Augusta, Priolo
e Melilli (nel sud-est dell’Isola) sbarcò il colosso nazionale
dell’Enichem, e il gruppo di ingegneri provenienti dall’industrializzato
Nord – grazie alla Regione Sicilia – si comprò di fatto l’intero
paese di Melilli. Un piccolo centro di duemila anime completamente evacuato
per far posto al sogno della grande industria.
Tutto andò male, peggio di quanto non si potesse immaginare. Il colpevole
e velenoso stravolgimento dell’ecosistema
dei territori dei tre centri si manifestò in forme sempre più
gravi, fin quando nel 1980 non nacque il primo bambino senza orecchie. Il primo
che capì e denunciò la connessione tra le crescenti malformazioni
e il fetido inquinamento dell’area fu un medico. Ma non fu creduto –
del resto credere in certe cose per le poche persone che “contano”
è economicamente controproducente – come non furono creduti i sindacalisti,
gli ambientalisti e tutti coloro che respiravano i veleni rarefatti nell’aria
e concentrati nei pesci del (fu) pescoso litorale.
Tutto è stato colpevolmente tenuto nascosto fino a due anni fa, quando
i magistrati siracusani, con cinque meticolose inchieste – che si avviano
alle conclusioni – hanno svelato la paurosa dimensione del disastro ambientale:
concentrazioni di mercurio presenti nell’acqua
e nei pesci rispettivamente 20 mila e 500 volte di più della soglia massima
di sicurezza, modificazioni genetiche nei microrganismi
marini, una media di neonati handicappati (malformazioni
al cuore, ai genitali e alle orecchie) quattro volte superiore alla media nazionale,
il doppio delle gravidanze interrotte.
Dopo le fondamentali testimonianze degli operai del petrolchimico, che hanno
dichiarato di ricevere direttamente dai loro superiori l’ordine di buttare
in mare il mercurio, i magistrati avrebbero bisogno di dati che soltanto le
donne del luogo potrebbero fornire. Per avere dati precisi sull’entità
dei danni. Ci sarebbe bisogno
di ciocche di capelli e di campioni di latte delle giovani madri. E qui
si arriva al paradossale bivio di tutta la storia. Le
donne di Augusta e Priolo non voglio collaborare, hanno paura, un’irrazionale
paura della verità. C’è chi dichiara che avrebbe
preferito non sapere, chi dice di rifiutare per scaramanzia e chi – la
maggior parte – si rifiuta e tace sul perché.
Il sogno del petrolchimico è divenuto un fetido stagno di denuncie insabbiate,
omertà, corruzioni, mercurio e autolesionistiche paure. Un incubo.
Disarmati di fronte a tutto ciò, non resta che esprimere solidarietà
a tutte quelle donne che non possiamo comprendere, perché non possiamo
sapere fino in fondo che cosa hanno realmente vissuto. Senza rinunciare però
a condividere l’appello rivolto loro dai magistrati: fate
i test per scoprire quanto le vostre vite, quelle dei vostri figli e della vostra
terra sia stata avvelenata. Date voce alla verità, per quanto
difficile, è l’unica maniera per svegliarsi dall’incubo.
23 luglio 2004
Vittorio Greco
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