Debutta a Palermo il nuovo spettacolo teatrale di Claudio Collovà e Andrew Walsh, Donne in tempo di guerra, liberamente ispirato a Le Troiane di Euripide
Cadente,
disadorno, le ferite dei bombardamenti americani non ancora rimarginate: la
scelta del Teatro Garibaldi per il nuovo lavoro del regista Collovà Donne
in tempo di guerra non è casuale, anzi è perfettamente
consona al tema. Così, preso posto sulle impalcature di legno, dalla
Palermo del ’43 veniamo catapultati senza traumi sulle rovine di Troia.
E da lì proiettati sulle terre martoriate dalle guerre di ogni epoca,
su tutte le “zone calde” del pianeta, a cominciare da Baghdad.
Sulla scena, le donne a lutto. Vedove e madri,
con gli occhi sbarrati per l’eccesso di orrore a cui hanno assistito,
lo sguardo demente per un dolore troppo intenso per essere elaborato con gli
strumenti dell’umana ragione. Non parlano, non ne hanno la forza, e neanche
piangono: imprigionate nella disperazione, nella coazione a ripetere ossessivamente
gesti ormai svuotati di senso, si percuotono il corpo, con violenza concentrata
sulle parti che più rappresentano il loro status
di donne espropriate di maternità: il seno, il ventre, l’utero.
Raccolgono quel che resta dei loro morti, macerie d’uomo. Una giacca,
una camicia, un paio di pantaloni, una fotografia, vengono “rimontate”
nell’illusione di ricostruire una vita; ma a quel punto, l’unico
attore maschio in scena (è Paride? o forse la personificazione degli
effetti distruttivi della guerra?), preleva da terra queste reliquie di esistenze
cancellate e le getta in un unico mucchio, mescolandole fino a renderle indistinte.
Con pazza ostinazione, le donne si precipitano sulla fossa comune, raccolgono,
distinguono, tornano a ricostruire, inutilmente.
C’è la regina Ecuba, e Andromaca moglie di Ettore, trascinato per
i piedi intorno alle mura della città; ma ci sono anche donne comuni,
senza figli o mariti illustri. A tutte loro non resta che abbracciarsi, riconoscersi
nel medesimo dolore e nella comune prospettiva della schiavitù. C’è
anche la sacerdotessa Cassandra, che vaga sulla scena masticando inintelligibili
le sue profezie, ormai tristemente realizzate. Intorno, polvere e frastuono,
il rombo assordante e ininterrotto di un aereo che incombe su attori e spettatori,
che esaspera le coscienze.
Nella scena che, più delle altre, resta impressa per forza comunicativa,
una donna sta avvolgendo con cura una benda intorno a un’urna cineraria.
Ad ogni giro, sulla benda che si svolge, si leggono delle parole, che infine
compongono la frase: “Saluta tua madre: sei
stato in fasce invano”. È Andromaca, nell’urna i resti
del piccolo Astianatte.
A loro, le “donne di guerra”, Collovà affida il
messaggio antibellicista e antimperialista, così come fece Euripide
2500 anni fa.
Teatro Garibaldi - Palermo
29-30-31 luglio 2004, ore 21,30
30 luglio 2004
Edoardo Zaffuto
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