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La Corte di Cassazione riconosce alla madre il diritto di dare al figlio il suo cognome

Come spesso accade, è la solitaria e caparbia determinazione dei singoli l’unico ariete che riesce a far breccia nelle mura della consuetudine sociale. Luigi F. e Alessandra C., i coniugi milanesi che dopo anni di battaglie legali per aver riconosciuto il diritto di dare ai figli il cognome materno, creano un varco che dà una prospettiva a tutte le coppie che vorrebbero scegliere quale cognome dare ai figli.

I coniugi milanesi quando misero al mondo la loro prima figlia avevano espresso al competente ufficiale dello stato civile la volontà di dare alla piccola il cognome della madre. La richiesta fu respinta da una sentenza della Corte d’Appello di Milano, ma la coppia non s’arrese e si appellò alla Cassazione.
Il 17 luglio la Corte ha emesso una sentenza che avanza forti dubbi di incostituzionalità sulla consuetudine che impone alla prole il cognome paterno. La Cassazione ricorda che “la convenzione sull’eliminazione di tutte la forme di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1978 e ratificata in Italia con legge 132/85, all’articolo 16 ha impegnato gli Stati aderenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e in particolare ad assicurare gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome”. Aggiunge che, in contrasto con l’artico 3 della Costituzione, “privilegiare il tramandarsi del cognome paterno è una discriminazione”, e ricorda “le raccomandazioni del consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 in cui si chiede agli Stati ancora inadempienti di realizzare la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome”.

La Cassazione ha dunque dato ragione ad Alessandra che era convinta che “questa faccenda del cognome era una discriminazione nascosta”. Del resto in Italia non esiste nessuna norma, nessuna legge che prevede espressamente che al figlio debba essere assegnato il cognome paterno. Ma allora qual è la natura profonda di questa nascosta discriminazione?

Il retaggio socio-culturale che da secoli si tramanda cela una concezione della relazione uomo-donna che ha una caratterizzazione gerarchica fondata sulla netta contrapposizione di natura e cultura.
Come ci ricorda Galimberti su la Repubblica del 28 luglio, il rapporto paritetico nella generazione biologica diventa gerarchico nella rappresentazione sociale, per cui la donna è una semplice genitrice, mente il genitore, in quanto unica figura socialmente rilevante, è elevato a padre, colui che è legittimato a tramandare il proprio nome.
In Occidente questo pregiudizio ha radici profondissime, basti pensare che Aristotele affermava che nella generazione della prole la donna offre solo un’amorfa materia, la quale riceve la sua forma, cioè l’anima, dal maschio. Per i greci, come per il cristianesimo premoderno la donna è il prototipo di una natura (tentatrice) che la “civiltà” deve domare, plasmare e ordinare secondo un principio di (presunta) razionalità che è maschile. L’ideologia maschilista che ha caratterizzato secoli di civiltà ha creato e nello stesso tempo ha celato una contrapposizione tra riproduzione sessuale e riproduzione sociale che neutralizza la natura entro la ratio della società. L’ideologia maschilista è dunque la medesima cosa dell’ideologia che per secoli ci ha convinti che la natura è una sfera della nostra esistenza contrassegnata esclusivamente dal dolore e dalla scarsità dalla quale non si può che uscire con la civiltà, che dunque si definirebbe in opposizione ad essa.
In questa contrapposizione chi ci ha rimesso è stata la donna, l’incarnazione, suo malgrado, della natura da domare.

Dietro “questa faccenda del cognome” c’è traccia di tutto ciò.
L’auspicabile normativa che lascerà ai genitori la libertà di scegliere quale cognome tramandare non potrà certo sradicare completamente retaggi simili, ma tutto quello che è già successo è comunque un segnale incoraggiante, il sintomo che è maturato il tempo di superare anacronistici privilegi, la dimostrazione che ci sono uomini e donne che per affermare la loro libertà non si fanno scoraggiare nemmeno dalle più reiterate convenzioni sociali.


30 luglio 2004
Vittorio Greco d’Acquisto
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