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Arcidonna News Mithal denuncia le torture subite a Abu Ghraib
Mithal denuncia le torture subite a Abu Ghraib Print E-mail
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L'intervista-shock rilasciata al Manifesto da una irachena sciita

L’intervista resa da Mithal a Giuliana Sgrena, inviata del Manifesto, riaccende i riflettori sul carcere delle torture. “Mithal è divorziata da otto anni – il marito si è risposato e si è trasferito in Libia – e da allora ha dovuto mantenere da sola i suoi sette figli, lavorando in una panetteria e poi come taxista. Saddam – dice – ci ha insegnato solo a lavorare”. Per ottanta lunghissimi giorni Mithal ha dovuto subire torture fisiche e psicologiche nel carcere di Abu Ghraib prima di essere liberata il 23 maggio scorso. Dice di aver riconosciuto alcuni detenuti e alcuni soldati nelle immagini che circolavano su internet, e di non aver paura a raccontare quello che ha visto e quello che ha dovuto subire: “io non ho fatto nulla di male, perché dovrei avere paura?”.

Tutto ha avuto inizio il 28 febbraio scorso alle due e mezza di notte, quando i soldati americani hanno fatto irruzione nella sua casa sfondando la porta. “I soldati hanno cominciato a buttare tutto per aria e mi hanno portato via, oltre a tutti i documenti e le chiavi, 7 milioni di dinari (circa 4000 dollari) ricavato dalla vendita di due macchine… Mi hanno chiesto se conoscevo un certo Hassib, un commerciante d'armi, un ufficiale siriano”. I soldati americani sono arrivati a Mithal a seguito di una denuncia-vendetta.

Quella notte Mithal e il figlio maggiore di 38 anni sono stati trascinati giù per le scale per cinque piani: “Mi hanno portata al Sujud palace. A un certo punto mi hanno mostrato un uomo con un sacco in testa legato a un albero. Era mio figlio, l’avevo riconosciuto dai calzoni. L’hanno trascinato vicino a me, gli hanno tolto il sacco, era orrendamente torturato, con profonde ferite in testa, e gli hanno detto: di' addio a tua madre, prima di rimettergli il sacco in testa e legarlo nuovamente al palo. Poi un soldato ha cominciato a trascinarmi via di corsa: io avevo il capo coperto, le mani legate dietro la schiena… non ce la facevo a correre, faceva freddo, tremavo, allora mi ha buttato per terra… alla fine mi hanno portato in una stanza e mi hanno avvolto tutta in una coperta, non riuscivo a respirare, battevo i piedi per terra per farmi sentire. Allora sono arrivati con le foto dei miei figli e ho cominciato a piangere e loro ad urlare: “dove hai messo la forza che ti ha dato Saddam?” e poi, buttando le foto per terra, mi hanno detto: “saluta i tuoi figli, non li vedrai per trent’anni”. Mi hanno riportato da mio figlio che mi ha chiesto se ero veramente un agente di Saddam. Come era possibile che mio figlio mi chiedesse questo con tutti i sacrifici che ho fatto per crescerli? Sono una povera donna sciita, e Saddam non amava gli sciiti, come avrei potuto essere un agente? Avevano appena detto a mio figlio di confessare che conosceva Hassib e l’avrebbero liberato. Poi l’hanno riportato via. Io non ho saputo più niente di lui finché sono tornata a casa: era stato rilasciato il giorno dopo… Più tardi mi hanno caricata su un furgoncino, stesa a terra perché nessuno mi vedesse, mi hanno portato all’aeroporto. In una stanza grande c’era un dottore che voleva che mi spogliassi. Mi sono rifiutata essendo musulmana, lui mi minacciava di tagliarmi i vestiti addosso. Alla fine gli ho chiesto se potevo tenere la biancheria intima e lui ha accettato. Comunque mi ha controllato solo i polsi. Poi mi hanno trasferito in una stanza enorme per l’interrogatorio, a farlo era una donna in abiti civili, mentre due soldati erano seduti in un angolo… Alla fine mi hanno riportato in una cella: un metro per un metro e mezzo con una bottiglia d’acqua e mi hanno lasciata lì per sei notti. Questo era solo l’inizio del calvario. A volte mi alzavano il riscaldamento al massimo e per dormire dovevo buttarmi addosso quella poca acqua che mi davano. A volte non mi davano né acqua né cibo. E poi dalla cella accanto arrivavano le urla degli uomini torturati, pianti e grida, che venivano registrate e ritrasmesse tutta la notte ad alto volume, insieme ad altri rumori... Non c’era modo modo di dormire. Io odiavo il loro cibo. Non ne potevo più, alla fine ho chiesto di poter scrivere qualcosa ai miei figli, perché mi sarei suicidata”.

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