There are no translations available. Sintesi dei dati riguardanti lo sviluppo e l'occupazione, resi pubblici dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo) e dalla Commissione Kok
Gli obiettivi occupazionali che erano stati individuati dal Consiglio europeo
di Lisbona nella primavera del 2000, puntavano alla conquista di 15-20 milioni
entro il 2010, con un tasso d’occupazione femminile di almeno del 60%.
La “Commissione Kok”, la speciale
task force istituita dal Consiglio e dalla Commissione
europea, ha tracciato i destini dell’occupazione e della ripresa del lavoro
in un documento che sarà la base delle discussioni dei prossimi Consigli.
Nelle ottanta cartelle del documento, la Commissione ha tracciato da un lato
le linee dell’evoluzione storica dell’occupazione e i passi necessari
per il futuro, dall’altro ha soprattutto lanciato un segnale d’allarme:
“L’Europa rischia di non raggiungere
i suoi ambiziosi obiettivi fissati a Lisbona” sia sull’occupazione
in generale che su quella femminile in particolare.
Nell’Europa dei 15 lo studio rileva 6,4 milioni di
donne che non svolgono un lavoro remunerato, anche se desiderano farlo.
E a questa cifra si aggiungono i 6,6 milioni di donne
che risultano disoccupate. Appare dunque chiaro che l’offerta potenziale
di manodopera femminile è considerevole.
In Italia il tasso di occupazione femminile è
fermo al 40% a fronte di una media europea del
55%. Nella classifica europea l’Italia sta dietro anche ai nuovi
paesi entrati nell’Unione, mentre in cima ci sono i paesi scandinavi insieme
alla Gran Bretagna e all’Austria, paesi che hanno già raggiunto
e superato gli obiettivi comunitari.
Il tasso di occupazione
delle donne è mediamente inferiore del 17% a quello degli uomini, e la
differenza raggiunge il 30% in Italia, Grecia e Spagna. Sono questi i
Paesi che dovranno lavorare di più, dal momento che in altri Paesi, come
Svezia, Danimarca e Finlandia la scarto tra uomini e donne è inferiore
al 10%.
Un dato molto significativo è che quattro italiane
su dieci rinunciano al lavoro per motivi di famiglia, il che equivale
a dire che le politiche fiscali non agevolano i nuclei familiari delle madri
lavoratrici, che gli asili sono pochi e troppo distanti dai luoghi di lavoro,
e che non sono previsti sufficienti agevolazioni contrattuali e orari flessibili.
A tutto ciò va aggiunto che le lavoratrici devono subire discriminazioni
salariali sino al 27-30% a parità di mansione. Lavoratrici, benvenute
nella grande Unione.
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